You need to upgrade your Flash Player This is replaced by the Flash content. Place your alternate content here and users without the Flash plugin or with Javascript turned off will see this. Content here allows you to leave out noscript tags.
Trattamento fisioterapico conservativo dell’instabilita'
Autore: Silvano Ferrari
Data:

Trattamento fisioterapico conservativo dell’instabilità

 

(Silvano Ferrari - Fisioterapista,Milano) – (Carla Vanti - Dottore in Fisioterapia,Bologna)

 

IX Congresso Internazionale S.I.R.E.R. “Il rachide lombare”

Cappella Ducale di Palazzo Farnese - Piacenza 30 settembre - 2 ottobre 2004

 

La stabilizzazione lombare è uno degli obiettivi del trattamento del paziente con instabilità clinica e⁄o

anatomica.

 

Basandosi sugli studi di Bergmark (1989), Janda (1986), Hodges, Hides, Jull e Richardson (University

of Queensland, Australia), Comerford ha approfondito le caratteristiche peculiari dei muscoli

stabilizzatori della colonna, che si diversificano, sia sul piano istologico che su quello biomeccanico, dai

muscoli mobilizzatori (2001). Comerford suddivide i muscoli in tre categorie:

 

·        stabilizzatori locali (più profondi),

 

·        stabilizzatori globali (intermedi),

 

·        mobilizzatori globali (più superficiali).

 

Gli stabilizzatori locali presentano una maggior percentuale di unità motorie lente o toniche (di tipo I,

rosse), che hanno una frequenza di scarica bassa, vengono attivate per prime, hanno una velocità di

contrazione lenta, sviluppano poca forza ma molta resistenza. Il loro reclutamento avviene ad una bassa

percentuale rispetto alla massima capacità di contrazione (inferiore al 25%); sono deputate al controllo

sia dell’attività posturale, sia di movimenti funzionali con carico minimo. Questa attività serve a

garantire una stiffness articolare fisiologica e quindi ad evitare l’eccessivo movimento fisiologico e

traslatorio, soprattutto nella zona neutra articolare (Panjabi, 1992), zona in cui la stabilizzazione

passiva offerta dalla capsula e dai legamenti è minima. L’attività di questi muscoli aumenta, in modo

anticipatorio, già prima di un carico o di un movimento, consentendo così di proteggere e sostenere

l’articolazione (Hides, 1996). Quindi la loro contrazione, che è continua ed indipendente dalla direzione

del movimento, non produce movimento, ma provoca una sorta di irrigidimento del sistema.

 

Infine, questi muscoli forniscono un importante input propriocettivo sulla posizione articolare e sul

movimento, input fondamentale perché il sistema nervoso centrale possa modulare correttamente il

reclutamento delle diverse unità motorie.

 

I muscoli collocati in posizione intermedia sono gli stabilizzatori globali: essi hanno la duplice funzione

di generare il movimento e provvedere al controllo eccentrico dell’escursione articolare durante tutto il

range di movimento, oltre che decelerare i movimenti con carico minimo (rotazione), particolarmente a

livello del tronco e dei cingoli. La loro attività non è continua e dipende dalla direzione di movimento.

 

I mobilizzatori globali invece, più lunghi e superficiali, hanno la funzione principale di produrre e⁄o

accelerare il movimento, soprattutto in flesso⁄estensione. Anche la loro attività non è continua e dipende

dalla direzione di movimento.

 

Questa classificazione inquadra sul piano chinesiologico i principali muscoli coinvolti nella statica e

nella dinamica di tutti i segmenti corporei. A livello lombare, sono stabilizzatori locali il multifido

profondo, il trasverso addominale, i fasci profondi dello psoas e quelli dell’obliquo interno, sono

stabilizzatori globali il multifido superficiale, gli spinali, gli obliqui addominali e il medio gluteo; sono

mobilizzatori globali l’ileo costale, il gran dorsale, il retto addominale e gli ischiocrurali.

 

Sul piano funzionale, la muscolatura sia posteriore che anteriore del tronco è organizzata con

caratteristiche simili. I muscoli posteriori superficiali (ileo-costale e gran dorsale) sono estensori a

vocazione cinetica e volontaria, mobilizzatori globali, quindi utilizzati per il raddrizzamento dalla

flessione; i muscoli dello strato intermedio (multifido superficiale e spinali) sono stabilizzatori globali,

utilizzati per frenare il movimento di flessione; i muscoli dello strato profondo (multifido profondo) sono

stabilizzatori locali, quindi controllano prevalentemente la posizione neutra articolare.

 

I muscoli anteriori più superficiali (retti addominali) sono mobilizzatori globali, quindi utilizzati per la

flessione antigravitaria; gli obliqui addominali sono stabilizzatori globali, particolarmente coinvolti nel

controllo della rotazione del tronco; il trasverso addominale è uno stabilizzatore locale, che si attiva

anticipatamente rispetto ai movimenti del tronco e degli arti (Hodges, 1996).

 

Questa impostazione costringe a rivedere il classico approccio terapeutico impostato sul rinforzo di

muscoli volontari e superficiali, per una funzione che invece è automatica e in carico.

 

La funzione stabilizzatrice muscolare deve infatti rispondere ad alcuni requisiti (Bergmark, 1989;

Comerford, 2001; Hodges, 1996, 1997, 1999):

 

·        il timing di attivazione deve anticipare il movimento;

 

·        il reclutamento deve essere appropriato (né insufficiente, né troppo forte);

 

·        la rigidità muscolare volta al controllo segmentale non deve interferire con il movimento;

 

·        l’attività deve essere continua durante tutto il movimento;

 

·        deve sussistere l’invio di input propriocettivi per la posizione articolare, l’ampiezza e la velocità

             del movimento. A livello lombosacrale, la maggiore concentrazione di fusi muscolari nei muscoli

             monosegmentali spinali (Cholewicki, 1996) confermerebbe proprio l’importanza del loro ruolo

             propriocettivo (Bogduk, 1997; Crisco 1991).

 

Diversi studi hanno documentato che in seguito ad un trauma articolare si riscontra un deficit della

risposta neuromotoria nei muscoli periarticolari, deficit che può essere efficacemente recuperato con

strategie di rieducazione mirata (Davies, 1993; Grelsamer 2001; Hewett, 1999; Ihara, 1986; Jerosch,

1996; Lephart, 1997, 1998; Rozzi, 1999; Wojtys, 1996).

 

A livello lombo-sacrale, è importante segnalare che:

 

·        il reclutamento dei muscoli stabilizzatori è ritardato nei soggetti con dolore lombare

(Cholewicki, 2002; Hodges, 1996, 1999; Radebold, 2001)

 

·        nei soggetti con lombalgia la capacità di mantenere il corretto posizionamento pelvico e la

funzione posturale stabile sono ridotte (Alexander, 1998; Gill, 1998; Radebold, 2001);

 

·        il deficit di stabilizzazione può continuare anche quando il dolore è cessato (Hides, 1994,1996;

Cholewicki, 2002).

 

A supporto di quest’ultima considerazione, la ricerca effettuata da Cholewicki (2002) ha evidenziato una

latenza nella risposta stabilizzatrice del tronco persino in atleti che sono tornati alla piena attività,

confermando quanto già emerso in lavori analoghi (Roy, 1989; White, 1996).

 

Da questi studi si evince la possibilità del sistema muscoloscheletrico di espletare performance elevate,

sopperendo al deficit funzionale specifico degli stabilizzatori locali tramite l’utilizzo della muscolatura

più superficiale. Quest’ultima però è meno adatta a svolgere il compito richiesto, quindi, in caso di

instabilità clinica, l’utilizzo di muscoli che tendono ad affaticarsi precocemente comporta un controllo

meno fine e preciso, provocando uno stress maggiore sulle strutture e un progressivo accorciamento

miofasciale dei muscoli superficiali.

 

Questa condizione può essere alla base dei dolori lombosacrali che si manifestano quando la

performance è terminata, dopo alcune ore o il giorno successivo. Il deficit degli stabilizzatori locali

potrebbe spiegare anche alcuni eventi clinici quali: la presenza, in soggetti non allenati, della continua

dolenzia nelle comuni attività della vita quotidiana; l’insorgere di dolore acuto senza sforzi apparenti; il

perpetuarsi delle recidive.

L’ instabilità può essere anatomica o clinica.

 

L’ instabilità anatomica rientra nell’ambito delle disfunzioni strutturali, in quanto caratterizzata

prevalentemente dalla perdita della contenzione da parte del sottosistema passivo, come nel caso di

spondilolistesi, instabilità post chirurgiche o esiti di frattura.

 

L’ instabilità clinica è una situazione diversa, che viene definita da Panjabi (1992) come “una

significativa diminuzione della capacità del sistema stabilizzatore a mantenere la zona neutra

vertebrale nei limiti fisiologici. Ciò può sviluppare una perdita di stabilità funzionale che può tradursi

in dolore e disabilità”. I principali segni e sintomi dell’instabilità clinica sono correlabili al mancato

controllo della zona neutra vertebrale: dolore al cambiamento di posizione e⁄o dopo attività dinamiche

intense, diminuita resistenza alle posizioni statiche mantenute, sensazione di insicurezza,

miglioramento con una contenzione passiva. Il range di movimento è normale o ridotto, la qualità del

movimento scarsa e il paziente manifesta difficoltà o impossibilità nel passaggio tra movimenti opposti,

come il ritornare in stazione eretta dopo essersi flesso in avanti (movimento che viene spesso compiuto

“arrampicandosi” con le mani lungo gli arti inferiori).

 

Clinicamente, è possibile valutare la capacità del paziente di eseguire semplici compiti funzionali in

maniera armonica e coordinata (ad esempio, si richiede al soggetto il passaggio del carico sul pallone o

su superfici oscillanti), o si richiedono compiti con gli arti che presuppongono una capacità

stabilizzatrice anticipatoria del tronco (ad esempio, il calciare una palla o lanciarla con le mani contro

una parete). Test specifici, che si possono avvalere del biofeedback a pressione (Fig. 1), sono in grado di

rilevare un deficit di attivazione del multifido, dei fasci profondi dello psoas o del trasverso addominale.

 

In accordo con i concetti espressi, molte ricerche hanno recentemente supportato l’efficacia di un

training volto al corretto reclutamento neuromuscolare e quindi alla stabilizzazione lombare (Jull, 2000;

O’Sullivan, 1997, 2000; Hagins,1999; Richardson, 1999).

 

Le procedure di stabilizzazione non sono eseguite mediante i classici esercizi di rinforzo, ma tramite una

specifica rieducazione funzionale, in grado di rispettare la fisiologia dei gruppi muscolari e correggere le

disfunzioni presenti, che possono essere di attivazione, timing, tono, resistenza, lunghezza muscolare.

 

La rieducazione si articola in diverse fasi (Ferrari, 2002):

 

·        controllo della posizione neutra articolare (riallenando l’attivazione tonica, a bassa soglia, dei

muscoli stabilizzatori locali);

 

·        controllo dinamico nella direzione dell’instabilità (stimolando il soggetto a compiere i movimenti

che riproducono i sintomi, controllando il cedimento articolare);

 

·        controllo dinamico della totalità dell’escursione articolare (con un’esercitazione prevalentemente

in eccentrica per migliorare la coordinazione con gli stabilizzatori globali);

 

·        allungamento attivo o inibizione dei muscoli mobilizzatori globali accorciati.

 

Man mano che il controllo viene riattivato, si deve migliorare la capacità di stabilizzare mediante

l’esecuzione di movimenti controresistenza, esercizi aerobici, compiti che richiedono velocità di

esecuzione, ecc. Trovano quindi ampio spazio gli esercizi di propriocezione della colonna e quelli

percettivo-motori, secondo gli stessi concetti utilizzati nella rieducazione dopo traumi alla caviglia, al

ginocchio o alla spalla.

 

Il training di stabilizzazione non si limita a coinvolgere i muscoli stabilizzatori locali, in quanto occorre

considerare anche il ruolo del diaframma e del pavimento pelvico nel mantenere una corretta pressione

intraddominale. Occorre quindi integrare la co-contrazione della muscolatura della parete addominale

(trasverso addominale, parte profonda dell’obliquo interno e multifido) con la respirazione ed il controllo

del pavimento pelvico (O’Sullivan, 2000 e 2002).

 

Le tecniche utilizzate possono essere varie, da quelle segmentarie che utilizzano il feedback pressorio

(Fig.1), a quelle più complesse e globali. Gli esercizi devono essere ovviamente proposti in diverse

posture (supino, in posizione quadrupede, seduto, in piedi, ecc.).

 

A titolo di esempio, riportiamo il training per il trasverso addominale utilizzato da Hagins nel suo

studio (1999), che si propone non solo di riattivare il muscolo, ma anche di ripristinarne il corretto

timing e la resistenza (Fig.2). Il training inizia con la presa di coscienza dei muscoli addominali e la

corretta attivazione del trasverso addominale (A e B) ed è composto da sette livelli di difficoltà

crescente, gli ultimi dei quali riservati a soggetti che devono espletare un notevole controllo di

stabilizzazione (atleti, ballerini, ecc.). Ogni sessione comprende tre esercizi, che saranno ripetuti dal

soggetto a domicilio. Man mano che il paziente riesce a raggiungere un livello successivo, si abbandona

quello iniziale (A-B-1, poi B-1-2, poi 1-2-3, poi 2-3-4 e così via).

 

Fig. 1 - Valutazione del traverso addominale mediante un biofeedback a pressione. Lo stesso strumento può essere impiegato per reclutamento muscolare.

 

 

Fig. 2 - Il livello I è un esercizio in grado di stimolare il lavoro segmentario degli stabilizzatori locali. Può essere effettuato anche mediante il biofeedback a pressione, chiedendo al paziente incavare gli addominali,aumentando la pressione da 40 a 50 mmHg e mantenerla per tre respirazioni senza produrre compensi. La prosecuzione del programma prevede un aumento progressivo dei carichi: il paziente esegue esercizi sempre più impegnativi mantenendo il controllo dell’unità interna (traverso addominale multifido, diaframma e pavimento pelvico).

 

(da “Riabilitazione Integrata delle Lombalgie”, Ferrari 2002.

 

Appena possibile, si inserisce l’attivazione del trasverso nel contesto

funzionale dell’unità interna, mantenendo la sinergia con il multifido, il

diaframma e il pavimento pelvico.

 

Anche il multifido può essere reclutato segmentariamente: uno specifico

esercizio per la co-contrazione del multifido e del trasverso addominale è

illustrato nella Fig.

 

Lo schema di trattamento proposto da O’Sullivan (2000) mostra che nella progressione del training si

progredisce stimolando l’attivazione del sistema muscolare globale, mentre il paziente mantiene il

controllo della co-contrazione locale (Fig.4): in questa seconda fase si ricerca l’integrazione funzionale

tra le unità motorie più profonde e quelle più superficiali. Inizialmente si utilizzano esercizi con bassi

carichi e si incrementano le difficoltà tramite il lavoro degli arti, poi si inseriscono esercizi con le

resistenze, contro gravità ed in carico.

 

Fondamentali gli esercizi propriocettivi, attuati sul pallone o su superfici instabili, che permettono di

ripristinare in modo inconscio il controllo dinamico. Lo stesso scopo può essere raggiunto anche

mediante altri approcci (Tai Chi, Alexander, Klein-Vogelbach, Feldenkrais, Pilates, ecc.), a condizione

che ogni strategia sia eseguita senza l’evocazione dei sintomi e controllando la qualità e la precisione del

gesto, l’assenza di cedimenti, di restrizioni, di asimmetrie.

 

Nella terza ed ultima fase il soggetto viene allenato a mantenere la stabilizzazione durante l’esecuzione

di attività funzionali, che comportano sollecitazioni sempre più intense e veloci, risposte a carichi

improvvisi, esecuzione di gestualità proprie della vita lavorativa, sportiva o ricreativa del paziente.

 

 

Fig. 3 - Reclutamento del muscolo multifido profondo. Il fisioterapista

invita il paziente a “resistere” alla spinta del segmento interessato

verso il lettino (direzione postero-anteriore) controllando che il compito

venga eseguito con un’azione di irrigidimento segmentario e senza

l’attivazione dei muscoli superficiali.

 

Fig. 4 - Training del trattamento proposto da O’Sullivan

 

(da “Riabilitazione Integrata delle Lombalgie”, Ferrari 2002)

 

La verifica dell’outcome del trattamento considera sia il miglioramento soggettivo, sia quello oggettivo:

 

·        la capacità del soggetto di riprodurre senza dolore le attività che prima risultavano

sintomatiche;

 

·        il miglioramento qualitativo e quantitativo dei movimenti funzionali;

 

·        il miglioramento del punteggio nei questionari relativi al dolore e alle attività funzionali.

 

Bibliografia

 

1) ALEXANDER K.M., LA PIER T.L. Differences in static balance and weight distribution between

normal subjects and subjects with chronic unilateral low back pain. JOSPT 28(6): 378-83, 1998.

 

2) BOGDUK N. Clinical anatomy of the lumbar spine and sacrum. 3th edition. Churchill Livingstone, 1997

 

3) BERGMARK A. Stability of the lumbar spine. A study in mechanical engineering. Acta Orthopaedica Scandinavica 230 (60):20-24, 1989

 

4) CHOLEWICKI J., MCGILL S.M. Mechanical stability of the in vivo lumbar spine: implications for injury and chronic low back pain. Clin Biomech. 11(1):1-15,1996

 

5) CHOLEWICKI J., GREENE H.S. ET AL. Neuromuscular function in athletes following recovery from a recent acute low back injury. JOSPT 32(11): 568-75,2002.

 

6) COMERFORD M.J., MOTTRAM S.L. Functional stability re-training: principles and strategies for managing mechanical dysfunction. Man Ther 6(1), 15-26, 2001.

 

7) CRISCO J.J., PANJABI M.M. The intersegmental and multisegmental muscles of the lumbar spine. A biomechanical model comparing lateral stabilizing potential. Spine 16(7):793-799, 1991.

 

8) DAVIES G.J., DICKOFF-HOFFMAN S. Neuromuscular testing and rehabilitation of the shoulder complex. JOSPT 18:449-58, 1993.

 

9) FERRARI S., PILLASTRINI P., VANTI C. Riabilitazione Integrata delle Lombalgie. 2° edizione

Masson Ed. Milano 2002.

 

10) GILL K.P., CALLAGHAN M.J. The measurement of lumbar proprioception in individuals with and without low back pain. Spine 23(3):371-77, 1998.

 

11) GRELSAMER R.P., MCCONNELL J. La rotula. Approccio d’equipe. Masson, Milano, 2001.

 

12)HAGINS M., ADLER K. Effects of practice on the ability to perform lumbar stabilization exercises. JOSPT 29(9): 546-55, 1999.

 

13) HEWETT T.E., LINDENFELD T.N. ET AL. The effect of neuromuscular training on the incidence of knee injury in female athletes. Am J Sport Med 27:699-706, 1999.

 

14) HIDES J.A., RICHARDSON C.A. ET AL. Multifidus muscle recovery is not automatic after

resolution of acute first-episode low back pain. Spine 21 (23):2763-69, 1996.

 

15) HODGES P.W.; RICHARDSON C.A. Inefficient muscular stabilization of the lumbar spine

associated with low back pain: a motor control evaluation of trasversus abdominis. Spine 21(22): 2640-50, 1996.

16) HODGES P.W., BUTLER J.E. ET AL. Contraction of the human diaphragm during rapid postural adjustments. J Physiol (Lond) 505 (Pt2):539-48, 1997

 

17) HODGES P.W., RICHARDSON C.A. Altered trunk recruitment in people with low back pain with upper limb movement at different speeds. Archives of Physical Medicine and Rehabilitation, vol. 80,1999

 

18) IHARA H., NAKAYAMA A. Dynamic joint control training for knee ligament injuries. Am J Sport Med 14:309-315, 1986.

 

19) JANDA V. Muscle Weakness and inhibition (pseudoparesis) in back pain syndromes. In: Grieve G.P. (ed) Modern Manual Therapy of the vertebral column. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1986,pp197-201

 

20) JEROSCH J., PRYMKA M. Proprioception and joint stability. Knee Surg Sports Traumatol Arthrosc 4:171-179, 1996.

 

21) JULL G.A, RICHARDSON C.A. Motor control problems in patients with spinal pain: a new

direction for therapeutic exercise. J Manipulative Phys Ther 23 (2):115-117, 2000

 

22) LEPHART S.M., PINCIVERO D.M. ET AL. The role of proprioception in the management and

rehabilitation of athletic injuries. Am J Sport Med 25:130-137,1997

 

23) LEPHART S.M., PINCIVERO D.M. ET AL. Proprioception of the ankle and knee. Sport Med 25:149-1555, 1998.

 

24) O’SULLIVAN P.B., TWOMEY L.T. ET AL. Evaluation of specific stabilizing exercise in the

treatment of chronic low back pain with radiologic diagnosis of spondylolysis or spondylolisthesis. Spine 22 (24); 2959-67, 1997.

 

25) O’SULLIVAN P.B. Lumbar segmental “instability”: clinical presentation and specific stabilizing exercise management. Manual Therapy 5(1):2-12, 2000.

 

26) O’SULLIVAN P.B., DARREN J.B. ET AL. Altered motor control strategies in subjects with

sacroiliac joint pain during the active straight leg raise test. Spine; 27: E1-E8, 2002.

 

27) PANJABI M.M. The stabilizing system of the spine. I: function dysfunction, adaptation and

enhancement. Journal of Spinal Disorders 5(4): 383-389, 1992.

 

28) RADEBOLD A., Cholewicki J. et al. Impaired postural control of the lumbar spine is associated with delayed muscle response times in patients with chronic idiopathic low back pain. Spine 26(7):724-30,2001.

 

29) RICHARDSON C., JULL G. ET AL. Therapeutic exercise for spinal segmental stabilization in low back pain. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1999.

 

30) ROY S.H., DELUCA C.J. ET AL. Lumbar muscle fatigue and chronic low back pain. Spine 14: 992-1001, 1989.

 

31) ROZZI S.L., LEPHART S.M. ET AL. Balance training for person with functionally unstable ankle.JOSPT 29:478-486, 1999.

 

32) WHITE A. H. Rehabilitation of athletes with spinal pain. In: WATKINS R.G. (ed) The spine in

sports. Mosby, St.Louis 1996, pp264-65.

 

33) WOJTYS E.M., HUSTON L.J. ET AL. Neuromuscular adaptations in isokinetic, isotonic, and agility training programs. Am J Sport Med 24:187-192, 1996